Comunicato Stampa della SIGEA
Fazzini (climatologo): “Il Coronavirus
non terrebbe al momento conto delle variazioni climatologiche e dunque delle
temperature”.
“Il Coronavirus non terrebbe conto delle
variazioni climatiche. Questo è il risultato di uno studio in costante
evoluzione”. Lo ha dichiarato Massimiliano Fazzini,
Climatologo dell’Università di Camerino e Coordinatore del Gruppo di esperti
sul *Rischio Climatico* della Società Italiana di Geologia Ambientale (SIGEA).
“Lo studio è condotto da un gruppo
multidisciplinare accademico e tecnico (di cui fa parte il professore Massimiliano
Fazzini). Tra le differenti numerosissime variabili indipendenti che
possono spiegare l’evoluzione della variabilità spazio – temporale del
SARS-CoV-2 non possono non essere analizzate quelle meteoclimatologiche ed
ambientale. In particolare, da più parti si sono fatte svariate allusioni
sull’incidenza della variabile temperatura - ha proseguito Fazzini -
evidenziando che il virus possa perdere di virulenza all’aumentare o al
sensibile diminuire di tale parametro; alcuni divulgatori hanno curiosamente
evidenziato che il virus morirebbe oltre i 27°C di temperatura. Ovviamente è
quello che speriamo tutti. Da alcuni studi sembrerebbe che il virus possa avere
una maggiore virulenza nel range termico esterno compreso tra 64 e 12°C e che
“le temperature registrate in febbraio in WUHAN siano idonee alla
proliferazione del virus” evidenziando poi che con L’AUMENTO DELLE TEMPERATURE
PROCEDENDO CON LA STAGIONE PRIMAVERILE, LE AREE SITUATE A LATITUDINI MAGGIORI
POTREBBERO SUBIRE UN INCREMENTO DEI CONTAGI. Però da approfondimenti che stiamo
conducendo sembrerebbe che il Coronavirus non terrebbe conto delle variazioni
climatiche.
Di conseguenza è stato approntato uno
studio climatologico finalizzato alla conferma di tali evidenze o supposizioni.
I primi parziali risultati dell’analisi effettuate sull’epicentro della
diffusione del virus -WUHAN e su alcune regioni estremamente fredde e calde del
Globo oltre che nella Lombardia e nel Veneto, a partire dal 20 gennaio circa,
focalizzando l’attenzione sui giorni di picco del segnale statistico
considerando, come da recente letteratura scientifica, un tempo medio di
incubazione di 5,5 giorni ±2 giorni, mostra che:
Nell’area di WUHAN, l’intero mese di
Febbraio - ha proseguito Fazzini - ed in particolare la prima
decade, nella quale si sono verificati i picchi epidemiologici, hanno
evidenziato temperature costantemente oltre le medie climatiche (9,2°C la media
mensile del mese contro i 5,8°C della media climatica riferita al trentennio
1971-2000) mentre le precipitazioni sono state complessivamente inferiori alle
medie climatiche (36 mm Vs 52 mm). Evidentemente, non si tratterebbe di
anomalie medie tali da poter in qualche modo amplificare il segnale
epidemiologico occorso. Se poi si va ad analizzare l’andamento epidemiologico
giornaliero con quello termico, ne deriva un coefficiente di correlazione pari
a circa 0,11, dunque statisticamente insignificante. Quindi il quadro
climatologico non ha influito in alcun modo sull’evoluzione del contagio. Ora,
giunti al probabile termine del picco epidemiologico, non si osservano
nuovamente anomalie termiche significative, tal ida poter eventualmente
giustificare un rapido calo della virulenza dovuto al segnale termico”.
Analizzata l’evoluzione termica di
Irkutsk e aree subartiche.
“Si è analizzata l’evoluzione termica di
Irkutsk, città di oltre 620.000 abitanti e capitale della Jacuzia – ha
continuato Fazzini - notoriamente l’area estesamente abitata più
fredda dell’emisfero boreale. Per lo stesso periodo di osservazione, si sono
osservate temperature medie notevolmente più elevate della media climatica (a
febbraio una media di -14°C contro una media climatica di -21°C) e nella prima
decade di Marzo la media risulta essere di -7°C a fronte di una media di -13°C.
Nelle restanti aree subartiche o artiche
(Es Svalbard, Alaska, Canada Artico, Groenlandia), risulta evidente come
l’assenza di centri abitati di riguardo o comunque l’estrema bassa densità
della popolazione non abbiano potuto potenzialmente favorire la diffusione del
virus”.
Si sta
esaminando l’andamento dei principali parametri di inquinamento ambientale
(Biossido di azoto e di zolfo e particolato sospeso).
“Focalizzando
infine l’attenzione sul dominio lombardo - veneto, sono stati considerati, a
partire dal 20 febbraio e sino al 18 marzo, i dati termo-pluviometrici ed
anemometrici di 10 stazioni rappresentative - ha concluso Fazzini -
sia dei tre focolai principiali di diffusione del virus (aree di Codogno,
Nembro e Vo’ Euganeo) sia delle altre province maggiormente interessate della
regione lombarda (Bergamo, Brescia, Cremona, Pavia). Anche in questo caso, i
coefficienti di correlazione tra la diffusione giornaliera del virus a livello
provinciale ed i parametri meteoclimatici non hanno affatto evidenziato alcun
rapporto statistico e dunque sembrerebbero di conseguenza smentire i risultati
pubblicati ufficialmente da più fonti. A quanto pare nessun rapporto ci sarebbe
tra le variazioni climatiche, dunque le temperature e l’evoluzione
epidemiologica del Coronavirus. Contemporaneamente, stiamo esaminando
l’andamento dei principali parametri di inquinamento ambientale (Biossido di
azoto e di zolfo e particolato sospeso) per tentare di ricavare eventuali
relazioni statistiche multiregressive con i prima menzionati parametri meteo
climatologici sempre in relazione alla comprensione dell’espansione del COVID 19”.
Per Interviste:
MASSIMILIANO FAZZINI - DOCENTE
UNIVERSITA' CAMERINO - CLIMATOLOGO - GEOLOGO - TEL 338 133 4319.
Giuseppe Ragosta – Addetto Stampa
Nazionale della Società Italiana di Geologia Ambientale – Tel 392 5967459.